giovedì 4 aprile 2013

In dieci anni 1.440 miliardi (millequattrocentoquaranta) ... conti alla mano.


… e potrebbe essere una Nazione allegra e senza tanti problemi come invece … ma seguitemi un po’.

Che il turismo non si possa delocalizzare è una cosa certa, a parte sole e poche eccezioni attraverso opere del museale e via cantando, ma il turismo alberghiero beh, quello proprio no.
E’ impossibile!

Eppure, nonostante questo, è il settore più bistrattato che c’è.
Sì, è vero che il buon Dio ci ha dato il Paese più bello del mondo ed è molto probabile che su questo ci siamo (si sono) addormentati.
Vuoi per stupidità o per gli interessi di alcuni s’è verificato quello che è sotto gli occhi di tutti, portando le statistiche e le presenze a numeri da libri contabili da consegnare ai tribunali.
Ancora un po’ e ci siamo.
Che cosa sarebbe successo in Italia se gli altri settori non avessero delocalizzato?

Di Giuseppe Sandro Mela (un concittadino genovese in gamba).

Il processo di delocalizzazione della produzione da parte di aziende italiane é argomento di miti, mitizzazioni, e, sostanzialmente, di grossolane bugie.
La tesi principalmente in auge sosterrebbe che la delocalizzazione sia retta dalla ricerca del massimo profitto ottenuto tramite la corresponsione d’infimi salari.
Questa tesi rispecchia in modo virtualmente perfetto l’ideologia ottocentesca per cui i salari corrisposti alle maestranze costituirebbero gran parte del costo del lavoro.

Ciò non corrisponde al vero: ora in Italia questa componente ha un peso minimale rispetto ai costi adducibili agli adempimenti normativi e burocratici.

Facciamo due conti.
Questo studio considera solo le aziende con più di dieci addetti e con un fatturato minimo di 2.5 milioni di euro.
Considerando in via del tutto riduttivo un fatturato medio di quattro milioni per azienda, l’Italia ha perso nel comparto produttivo un fatturato di circa 108 miliardi l’anno. Il conto é approssimato: se é vero che il fatturato medio perso pro anno é scalare, é altrettanto vero che l’indotto è pur esso scalare, compensando così l’approssimazione. É facile calcolare la perdita in gettito fiscale.

Considerando gli 1,557,000 posti di lavoro generati all’estero e assumendo, in termini medi, un salario corrisposto in busta paga di 1,500 euro mensili, quindi salario in senso stretto più le relative indennità, sono stati sottratti al mercato interno circa 30.362 miliardi.
Considerando che se queste aziende fossero rimaste in Italia il numero degli attuali disoccupati risulterebbe essere inferiore di una cifra corrispondente, circa un milione e mezzo, si sarebbe evitato l’esborso di circa quattordici miliardi ogni anno per ammortizzatori sociali.

La contabilizzazione delle perdite subite negli ultimi dieci anni raggiunge cifre da capogiro: 1,000 miliardi sul fatturato, 300 miliardi sul mercato interno, 140 miliardi di ammortizzatori sociali. Totale: 1,440 miliardi.
Sono conti eseguiti tanto per fissare gli ordini di grandezza. Non è stata per esempio considerata la perdita indotta dalla riduzione dei consumi interni. Così come non è stata quantizzata la perdita da deprivazione del know-how.

Considerazioni.

La delocalizzazione non dipende dal desiderio di guadagno dovuto alla corresponsione di minori salari in busta paga.
Se così fosse, resterebbe inspiegabile il motivo per il quale ben 2,562 aziende si siano trasferite nella sola Francia, paese con rigide leggi sul lavoro e salari significativamente maggiori rispetto a quelli italiani. Si tenga inoltre conto che altrettante aziende si sono trasferite in Svizzera e in Austria, anch’essi paesi con legislazioni sul lavoro molto severe e salari ben maggiori di quelli nostrani. Seguono Stati Uniti (2.408 aziende), la Germania (2.099 imprese), la Romania (1.992 unità produttive) e la Spagna (1.925 aziende): 10,986 aziende si sono trasferite nell’enclave occidentale, mentre solo 1,103 imprese italiane hanno scelto di proseguire la propria attività produttiva in estremo oriente.

Quindi, l’assunzione che si delocalizzi alla ricerca di bassi salari altro non è che un mito, e come tale dovrebbe essere smitizzata, e rapidamente. É una falsità. una menzogna.

«Fare impresa in Italia è molto più difficile che altrove. Le tasse, la burocrazia, il costo del lavoro, il deficit logistico - infrastrutturale, l’inefficienza della Pubblica amministrazione, la mancanza di credito e i costi dell’energia rappresenta degli ostacoli spesso insuperabili che hanno indotto molti imprenditori a trasferirsi in Paesi dove il clima nei confronti dell’azienda è più favorevole».

Quindi, tasse, burocrazia, costo del lavoro indotto dall’applicazione di contratti e normative iugulatorie, inefficienza della Pubblica amministrazione, costi dell’energia sono i fattori cui ascrivere la delocalizzazione.

Un solo particolare per tutti.

«Un elemento di forte richiamo è la certezza del diritto. In Francia, ad esempio, i tempi di pagamento sono più puntuali e più rapidi di quanto avviene da noi. La giustizia francese funziona e chi non paga è perseguito e sanzionato. Senza contare che i tempi di risposta delle autorità locali sono strettissimi, al contrario di quanto succede in Italia, dove l’unica certezza sono i ritardi che accompagnano quasi ogni pratica pubblica».

Conclusioni.
Note le cause, individuare la terapia è sequenziale.
La patologia dell’economia italiana ha un solo e unico nome: lo stato e la sua burocrazia.
Il mantenimento di questo stato e di questa sua burocrazia, anche nelle persone dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, è costato all’Italia la bellezza di 1,440 miliardi.

Sembra quindi lecito domandarsi: ma ne valeva poi la pena?
Se si fosse agito di conseguenza per tempo, adesso gli italiani avrebbero in tasca 1,440 miliardi in più e non avrebbero grossolani problemi: é il Pil di un anno. Oltre il 70% del debito sovrano. Solo se non avessimo obbligato quelle aziende a fuggire. Potremmo guardare in faccia i partner europei, imponendo le nostre condizioni.

Stai a vedere che Von Mises aveva proprio ragione!







2 commenti:

  1. @Luciano

    Ne sai qualcosa?

    Genova - “Il turismo ci salverà dalla crisi”: parola dell’assessore regionale Angelo Berlangieri, che in queste settimane sta presentando la nuova legge sul settore. “E’ una legge che semplifica le procedure sia per la riqualificazione degli ex alberghi abbandonati, sia per la ristrutturazione delle strutture ricettive che altrimenti sarebbero fuori mercato”.

    “Il turismo, in una situazione di decrescita assoluta, è l’unico mercato che cresce”, sottolinea Berlangieri.Attenzione però a non correre da soli: sui mercati lontani il nome Liguria dice poco, è meglio fare sistema, vendere il made in Italy, e inserire la Liguria nei circuiti turistici nazionali: “Il marchio Liguria deve presentarsi come marchio di eccellenza del marchio Italia”

    “Solo dal mercato dell’ex Unione sovietica arriva una crescita del 140% negli ultimi anni”, spiega Berlangieri. E dal turismo, in un momento di crisi generale, potrebbero arrivare 25mila posti di lavoro: “Il settore continuerà a crescere negli ultimi 10 anni. Se l’Italia crescesse come il resto dei Paesi del Mediterraneo, genererebbe mezzo milione di posti di lavoro, il 4/5 per cento dei quali in Liguria”.

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