I grandi "saccenti" (scherzo, neh) al Governo hanno deciso che sulla Tarsu non ci si capisca una mazza fionda.
E come già sulla tassa di soggiorno, dove ogni comune la ragiona come più l'aggrada, ecco che la cosa si ripete inde(fessamente).
E ognuno farà come gli pare.
A questi punti vorrei tanto capire a che "picchio" (uso questo termine per non usarne altri di poco ortodossi, ma in verità all'origine sarebbe "minkia") serve il ½ ministero della semplificazione.
Pertanto gli alberghi (come se già non bastassero le mazzate tassatorie che continuano a ricevere a danno della qualità, nonché se paragonate poi a quelle delle nazioni competitrici in questo settore) non sanno ancora di che morte devono morire.
Qualche decina di migliaia di euro a cranio e tira a campà.
Non si fa così ma così purtroppo è.
Mentre la situazione oramai si ripercuote costantemente da qualche decennio (tolgono al cittadino per pagarsi i loro porci comodi) senza che noi ... ah, se ci fossero ancora i nostri nonni.
Allora sì che ce la rideremo di vero gusto (stavolta noi), e col "picchio" (in questo caso fa rima con l'ultima parola della frase) se ne permetterebbero il continuo andazzo.
Non molti giorni fa riportavo una intervista effettuata dall'Espresso alla Margaret Thatcher che così rispondeva alla pertinente domanda:
"I governi non creano la ricchezza.
La consumano.
Sono le persone che creano la ricchezza ed esse hanno bisogno dell’incentivo dei tagli di tasse per farlo.
Non crediamo che ridurre ciò che il governo fa diminuisca la sua autorità.
Al contrario, un governo che fa meno, e quindi lo fa meglio, rafforzerà la sua autorità."
Parole sante ... ma constatando che gli attuali che circumnavigano i palazzi del potere e facendo un passo indietro laddove non si scherzava per niente ...
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Conosciamo tutti l’abominio esecrabile dell’Antico Regime, quando, per far fronte a imposte e gabelle, il lavoratore francese era mediamente costretto a regalare ogni anno allo Stato ben… 18 giorni delle proprie sudate fatiche, mentre oggi ne regala la cifra folle di 208… Il calcolo è documentato nell’articolo L’arbitraire fiscal.
L’impôt dans l’Ancien Régime et en 2013, pubblicato sul n. 5 (ottobre 2013) di Laissons Faire. Revue des économistes français, il mensile pubblicato dall’Institut Coppet di Parigi, ovvero un think tank di libertarian francesi creato nel 2010 dal filosofo Damien Theillier nello sforzo di rileggere per intero, e senza tabù preconcetti, la storia di Francia.
La fiscalità dell’Antico Regime era complessa e frammentata, spesso farraginosa e confusa, ma nulla a paragone di quanto lo Stato francese esige dai suoi cittadini.
Vi erano tasse dirette e imposte indirette, e fra queste s’insinuavano oasi di privilegi e di esenzioni che in più di un caso finirono per irritare parti della popolazione.
Ma non tutti i privilegi fiscali, garantiti a geometrie e a geografie variabili dalla monarchia francese, erano solo abusi.
Spesso i privilegi venivano concessi a fronte d’impegni ben concreti per il Paese. Per tutto l’Antico Regime, infatti, la ragione unica della leva fiscale era quella militare.
Il re domandava sacrifici economici ai francesi per pagare le “loro” guerre.
Bello o brutto che il concetto fosse, giuste o ingiuste, e popolari o meno, che le guerre della Corona fossero, il sovrano poteva domandare al regno contributi in denaro solo per quel motivo, ed era evidente che, in un modo o nell’altro, correttamente o meno, si riusciva abbastanza facilmente a far passare la guerra come azione necessaria alla salvaguardia (nel caso della guerra di difesa) o all’ampliamento (nel caso della guerra di espansione) del bene comune, quasi un “servizio al Paese”.
Al popolo il re domandava dunque di accollarsene i costi; e quando praticava sconti ai nobili, lo faceva perché essi sul campo di battaglia ci si recavano fisicamente, pagandosi armi e seguito, e spesso senza più fare ritorno alle proprio famiglie potenzialmente così impoverite. Insomma, certi aristocratici l’imposta per la guerra la pagavano direttamente in natura, mettendo a disposizione la propria vita e spesso privandosene.
Certo, alcune tasse “di guerra” finirono per divenire permanenti: ma fu proprio contro le gabelle “di pace” che la Francia chiese quelle riforme profonde che invece l’assolutismo, nei suoi momenti di massima involuzione, negò, tirandosi la zappa sui piedi.
I francesi che si lamentavano per le tasse straordinarie divenute illegittimamente ordinarie miravano infatti ovviamente solo a pagarne meno, non certo di più; desideravano cioè riformare la decadenza della monarchia, non sostituirla con un mostro ancora più esoso. La storia dei cahiers de doléances e della convocazione (troppo colpevolmente ritardata dalla monarchia francese) degli Stati Generali è tutta qui.
La chiave di volta è quanto ha scritto nientemeno che lo storico François Hinckler (1937-1998), specialista della Rivoluzione Francese e tesserato ‒ attivo anche in politica ai tempi di François Mitterand (1916-1996) candidato unico delle Sinistre ‒ del Partito Comunista Francese, nel suo Les Français devant l’impôt sous l’Ancien régime (Flammarion, Parigi 1971). «Utilizziamo un campione artificiale, ma che ha il vantaggio di essere esplicito. I 25 milioni di persone che probabilmente abitavano allora la Francia dovevano pagare 470 milioni di livre in tasse, ovvero 18 o 19 a testa.
All’epoca, il salario giornaliero di un operaio edile di Parigi era poco meno di una livre. Ciò significa che un salariato medio lavorava poco più di sette giorni l’anno per pagare le varie forme d’imposte dirette e poco più di nove giorni per pagare le altre imposte indirette».
Nel 2013, invece, con il livello della tassazione media al 56,9%, i francesi impiegano 208 giorni di lavoro l’anno per soddisfare la richiesta fiscali dello Stato. «Da che ‒ conclude Laissons Faire ‒ ci si domanda se la Rivoluzione Francese sia servita a migliorare la nostra condizione,
o se non è invece giunto il momento di farne una nuova».
E noi ... ?
P. S.: Personalmente non ho mai fatto nemmeno uno sciopero in vita mia e nemmeno quando andavo a scuola, ma credo che sia giunto il momento di fare qualcosa ... avanti così non si può più andare.