Digiamocelo, in Italia non c'abbiamo una benemerita “mazza” che esce dal nostro sottosuolo e che ci può rendere ricchi o quantomeno agiati; niente oro o diamanti o minerali rari, tantomeno petrolio o gas e via cantando.
Solo pietre, sassi e poco d'altro.
Solo pietre, sassi e poco d'altro.
Non c’è neanche una grande distesa di grano o qualcosa che ad esso assomigli.
No, noi abbiamo una sola, grande, persino immeritata ricchezza: la bellezza dei nostri paesaggi, la bellezza dei nostri siti archeologici, la bellezza dei nostri borghi medievali, la bellezza delle nostre residenze patrizie, la bellezza dei nostri musei, la bellezza delle nostre città d' arte.
E ce ne vantiamo.
Ce ne vantiamo sempre ma non è merito nostro, anzi lo deturpiamo, e chi dovrebbe provvedere alla sua salvaguardia … vabbeh, avete capito e già lo sapete.
Fino a fare addirittura la parte degli sbruffoni («Abbiamo il 40% dei capolavori planetari!», «No, il 50%!», «No, il 60%!») giocando a chi la spara più grossa.
Primato che, per quanto ne so, spetta alla ministra del turismo Michela Vittoria Brambilla.
Che nel portale in cinese con il logo «Ministro del Turismo» lancia un messaggio al popolo dell' Impero di mezzo e sostiene non solo che «le grandi marche di moda sono italiane» e «tutti i tifosi del mondo seguono il campionato di serie A italiano» ma anche che l' Italia «possiede il 70% del patrimonio culturale mondiale».
Bum!
E il Machu Picchu, i templi di Angkor, le piramidi, Santa Sofia e il Topkapi a Istanbul, il Prado, San Pietroburgo, la Torre di Londra, la cittadella di Atene, i castelli della Loira, Granada, la città proibita di Pechino, il Louvre, la thailandese Sukothai, il Taj Mahal, il Cremlino, l' esercito di terracotta di Xi' an, Petra, Sana' a e tutto il resto del pianeta?
Per Lei gli altri si spartiscono gli avanzi.
Ma nessun problema, alle Sue cifre “gonfiate” siamo ormai abbastanza assuefatti.
Un' intervista di Marcello di Falco all' allora ministro del Turismo Egidio Ariosto ci ricorda che nel maggio 1979 l' Italia era «il secondo Paese del mondo per attrezzatura ricettiva, il primo per presenze estere, il primo per incassi turistici, il primo per saldo valutario».
Tre decenni più tardi siamo scivolati al quinto posto.
E la classifica per la «competitività» turistica, che tiene conto di tante cose che richiamano, scoraggiano o irritano i visitatori (non aiutano ad esempio le notizie su «1 spaghetto aragosta: 366 euro» al ristorante La Scogliera alla Maddalena) ci vede addirittura al ventottesimo posto.
Certo, è verissimo che abbiamo la fortuna di avere ereditato dai nostri nonni più siti Unesco di tutti. Ne abbiamo 45 contro 42 della Spagna, 40 della Cina, 35 della Francia, 33 della Germania, 28 del Regno Unito, 21 degli Stati Uniti.
Ma questa è un' aggravante, che inchioda i nostri governanti, del passato e del presente, alle loro responsabilità.
Al loro fallimento.
Spiega infatti un dossier del dicembre 2010 di Pwc (PricewaterhouseCoopers, la più grossa società di analisi del mondo per volume d' affari) che lo sfruttamento turistico dei nostri siti Unesco è nettamente inferiore a quello degli altri. Fatta 100 l' Italia, la Cina sta a 270, la Francia a 190, la Germania a 184, il Regno Unito a 180, il Brasile e la Spagna a 130.
Umiliante.
E suicida.
Oltretutto non abbiamo molte altre carte da giocare, e loro non conoscono neanche il gioco del ruba mazzetto.
O forse quello si che lo conoscono bene!
Pochi mesi prima di morire, rispondendo a un lettore che gli chiedeva aiuto per salvare la riviera ligure, Indro Montanelli maledì sul «Corriere» questo nostro Paese che tanto aveva amato.
E scrisse che le ruspe sono sempre in agguato per «dare sfogo all' unica vera vocazione di questo nostro popolo di cialtroni che non vedono di là dal proprio naso: l' autodistruzione».
Do qualche flash sullo spreco.
Le gallerie della Tate Britain hanno «fatturato» nell' ultimo anno fiscale 76,2 milioni di euro, poco meno degli 82 milioni entrati nelle casse con i biglietti di tutti i musei e i siti archeologici statali italiani messi insieme.
Il merchandising ha reso nel 2009 al Metropolitan Museum quasi 43 milioni di euro, ben oltre gli incassi analoghi di tutti i musei e i siti archeologici della penisola, fermi a 39,7.
Ristorante, parcheggio e auditorium dello stesso museo newyorkese hanno prodotto ricavi per 19,7 milioni di euro, tre in più di tutte le entrate di Pompei, il nostro gioiello archeologico.
Dove i «servizi aggiuntivi» sono stati pari a 46 centesimi per visitatore: un ottavo che agli Uffizi, un quindicesimo che alla Tate, un ventisettesimo che al Metropolitan, un quarantesimo che al MoMa, il Museum of Modern Art.
Un disastro.
Per non dire di come custodiamo le nostre ricchezze.
Di Rizzo Sergio, Stella Gian Antonio e un poco mio.
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