Ho 35 anni e da 12 faccio il cuoco.
La mattina mi alzo, saluto la mia compagna che inizia
a lavorare alle otto, faccio qualche commissione e alle nove vado al
ristorante.
Mi metto la divisa nera con il nome ricamato in rosso,
scherzo con i colleghi, prendo un caffè e guardo la lista delle prenotazioni,
dei banchetti e dei fornitori, prima di iniziare a cucinare.
Faccio pausa dalle 15 alle 18, quando inizio il
secondo turno, che dura di solito fino alle 22.
A volte finisco più tardi.
Lavoro in un albergo in provincia di Vicenza.
In cucina siamo in quattro più due lavapiatti:
Eduardo, ventenne romeno e Joseph nigeriano di 35 anni arrivato in Italia via
mare dalla Libia durante l’insurrezione anti-Gheddafi.
In sala si alternano in cinque, altre due ragazze romene
lavorano al bar, in tre puliscono le camere, due sono alla reception e altre
due al centro benessere.
Fernando, da solo, si occupa delle pulizie notturne e
di preparare le colazioni, di giorno dorme in una delle stanze dell’albergo e,
in pratica, vive sempre qui dentro.
A fine mese prendo 850 euro di stipendio, più altri
mille euro in nero.
Ho un contratto part-time di quarto livello, a
termine.
E come me, con diverse proporzioni, sono pagati i miei
colleghi.
Le proporzioni si giocano sulla quantità di nero, la
busta paga è uguale per tutti.
A me piace questa professione fatta di cibo, vini,
tradizione e innovazione.
Mi piace leggere di cucina, informarmi, e ultimamente
è abbastanza facile, c’è internet, decine di riviste dedicate e almeno una
rubrica di cucina praticamente su ogni rivista.
Ma non mi capita mai di leggere il racconto di come
funzioni un’industria che occupa centinaia di migliaia di lavoratori e che è
strutturata intorno al lavoro sommerso, non denunciato, non garantito e non
tassato.
La mia è la storia di un
qualsiasi cuoco italiano discretamente capace.
Dietro le porte dell’eccellenza ci sono cucine nelle
quali si nasconde lo sfruttamento degli immigrati, l’utilizzo fraudolento ed
elusivo dei contratti di collaborazione, di lavoro discontinuo e di
associazione in partecipazione, dove i soldi neri veri non sono quelli che si giocano
nel rapporto locale-cliente (anche perché la merce si deve fatturare per forza,
e una volta fatturata occorre dimostrare che la si vende), ma quelli tra
locale-dipendenti.
La caccia allo scontrino di cui si legge in questi
mesi è poco coerente con la realtà dell’occupazione grigia della
ristorazione, che sembra difficile da controllare solo perché la struttura
delle regole relative al lavoro nei locali permette una parvenza di regolarità,
che diventa prassi dell’evasione.
Cifre nere
I dati ufficiali parlano
di una composizione del lavoro nero in Italia (secondo l’Istat, tra i 255 e i
275 miliardi di euro) in cui la quantità di persone contrattualizzate in
maniera atipica sta avendo un peso sempre maggiore, in particolare nella
ristorazione, dove le fasi lavorative e le nicchie con bassa produttività
permettono modalità contrattuali che rendono più facile eludere le regole. I
dipendenti risultano regolarizzati ma in realtà hanno mansioni e orari
enormemente maggiori rispetto a quanto denunciato.
Nel febbraio 2011 la
commissione per la riforma fiscale che si occupa di economia non osservata e
flussi finanziari, ha reso note le elaborazioni dell’Istat che entrano nel
dettaglio rispetto ai dati del sommerso diffusi per macrosettori nel luglio
2010.
Il quadro è disarmante, il Pil sommerso in Italia si
attesta tra un minimo del 16,1 e un massimo del 17,8 per cento dell’economia
reale: il valore più alto si registra, appunto, nel settore della ristorazione
e pubblici esercizi che, con il 56,8 per cento, supera quello del settore
agricolo (31,1), dell’edilizia (28,4), del commercio (21,7 per cento) e perfino
quello di domestici e badanti, fermo al 52,9 per cento.
Lavoro da 12 anni in cucine di alto livello e la
totalità delle aziende in cui sono stato impiegato sfrutta almeno il 50 per
cento del monte ore necessario a mandare avanti l’attività senza
regolarizzarle. Ho prestato servizio in 14 diversi locali, due di questi
stellati, a Roma sono stato chef di quattro ristoranti, ho lavorato a Firenze,
a Siena, nel Mugello, a Porto Rotondo, a Ferrara, a Bassano del Grappa e ad
Asiago.
In nessuna di queste 14 aziende sono mai stato assunto
in regola.
La stella Michelin, poi, al contrario di quanto si
potrebbe pensare, diventa motivo per alzare l’asticella dello sfruttamento: i
contratti sono gli stessi, ma le ore aumentano e diminuisce il fuori busta perché
“fa curriculum”.
La genialità dei migliori chef sta nel poter disporre
di manodopera a bassissimo costo, illegale, e quindi di una cucina in cui dieci
persone si occupano di 35 coperti.
Alla fine del 2011 mi sono trasferito in Veneto per
seguire la mia compagna che era stata assunta in questa regione virtuosa del
lavoro.
Sono arrivato senza conoscere nessuno, con un buon
curriculum sotto braccio ma una gavetta da cominciare praticamente da capo.
Il mio primo colloquio l’ho fatto a Bassano del
Grappa, la Silicon Valley del Nord Italia, dove mi è stato proposto un
contratto come cuoco di quarto livello da 30 ore settimanali e 900 euro mensili.
A queste andavano aggiunte altre 40 ore, in nero, con una integrazione fuori
busta di 600 euro. Significa lavorare 310 ore al mese (più vari straordinari
non riconosciuti) a meno di 5 euro l’ora. Tale accordo lavorativo, a titolo di
assunzione, mi è stato offerto dopo due mesi di “prova” totalmente in nero.
Gavetta, appunto.
In cucina c’erano altri quattro cuochi con il medesimo
trattamento.
Il sous-chef aveva il mio stesso contratto, 1.100 euro
fuori busta e molte responsabilità in più (organizzazione delle forniture,
gestione dei turni e dei menù straordinari, rapporto con la sala). Sofia, la
lavapiatti nigeriana, era assunta con contratto a chiamata, 15 ore al mese
segnate per lavorarne oltre 200.
In sala giravano molti camerieri, alcuni totalmente in
nero, la maggior parte con contratto a chiamata, tre erano assunti part-time,
tutti prendevano dai 400 ai 700 euro in nero al mese.
Lo chef era il proprietario.
In un ristorante che il sabato sera fa oltre 200
coperti risultano lavorare cinque cuochi di quarto livello (quindi senza
responsabilità diretta e senza capacità attestata di assumersela) con contratto
part-time, tre camerieri part-time e altri 3-4 a chiamata presenti per meno di 20 ore
mensili, una sola lavapiatti presente, non in nero, per sole 15 ore mensili.
La realtà è fatta di almeno ottomila euro di stipendi
pagati in nero ogni mese, di circa 1.200 ore “fantasma” di lavoro a settimana e
di persone che hanno una responsabilità effettiva che non risulta da nessuna
parte.
Ora vivo ancora in Veneto, ma ci siamo trasferiti più
a nord, ad Asiago. In aprile sono stato assunto in un Hotel 4 stelle lusso,
contratto part-time di 2 mesi, le solite 30 ore settimanali, ma quinto livello
(il minimo per avere accesso in cucina), per circa 800 euro mensili.
In realtà faccio dalle 48 alle 56 ore settimanali e
sono capopartita dei secondi, cioè gestisco autonomamente tutta l’inerenza
diretta alla lavorazione della carne e del pesce.
Le ore di straordinario, per fortuna, mi vengono
pagate (in nero) e a fine mese mi metto in tasca altri 1.000 euro consegnati a
mano in una busta bianca senza intestazione.
Tre dei camerieri lavorano come extra totalmente in
nero e tutti gli altri (chef compreso) percepiscono un fuori busta a fine mese.
Non è una situazione straordinaria,
non è “la crisi”.
La situazione più paradossale, forse, l’ho vissuta a
Ferrara, dove siamo rimasti circa un anno, dopo Roma e prima del trasferimento
in Veneto.
Là ho trovato quasi subito lavoro in un ristorantino
di nuova apertura in pieno centro storico.
Il posto era piccolino, circa 25 coperti: qui sono
stato chef e unico cuoco per circa sei mesi.
Non erano previsti giorni di riposo, si lavorava sette
giorni su sette, pranzo e cena.
La mia posizione contributiva prevedeva un contratto a
chiamata in cui figuravano dalle 15 alle massimo 25 ore mensili di servizio, il
mio stipendio (2.000 euro) era completamente in nero. Come può un ristorante
non subire nessun controllo se è aperto sempre e serve tutti i clienti con un
solo cuoco che lavora massimo 20 ore al mese?
C’è un disavanzo di 280 ore mensili.
Forse perché il posto era piccolo, semisconosciuto, mi
dico.
Ma com’è possibile, invece, che ristoranti illuminati
dalla Stella Michelin, possano avere fino a 2 o 3 “stagisti” che lavorano
gratis, immigrati irregolari che stanno fino a 12 ore in cucina per 30 euro e
nessun contratto registrato per mansioni oltre il part-time di quarto livello?
Nell’ultimo ristorante in cui ho lavorato a Roma, una
Stella Michelin, 12 persone in cucina per servire circa 40 clienti ogni sera,
c’erano due stagisti (la legge prevede che non si possa avere più di uno
stagista alla volta), uno completamente gratis, l’altro, 20 anni,
http://www.ilreportage.eu percepiva 500 euro mensili, in nero.
Nessuno degli assunti in cucina superava il 4° livello
e Miguel (detto Miky), originario di Manila, aveva un contratto a chiamata per
giustificare la sua presenza quotidiana alla lavastoviglie.
Per me solito contratto, retribuzione effettiva di
1.300 euro, circa 12 ore di servizio al giorno per sei giorni a settimana.
Siamo tutti cuochi di quarto
livello e camerieri part-time, tutti eterni ragazzini che fanno lavoretti per
mantenere gli studi.
Tre anni fa alla conclusione dell’ennesimo contratto a
termine (le dimissioni nel nostro ambiente si danno così, si va dal
proprietario e si chiede di non rinnovare il contratto, almeno si può accedere
alla disoccupazione) sono andato all’Inps per chiedere il sussidio, scoprendo
che dopo 12 anni passati in cucina risultano poco più di tre anni di contributi
versatimi.
Queste modalità di trattamento dei dipendenti è stato
enormemente agevolato dalla Legge Biagi del 2003, che introducendo il contratto
a chiamata ha fatto sì che le cifre regolarizzate diminuissero
considerevolmente a fronte delle stesse ore di impiego e dello stesso
trattamento economico.
Perché a dispetto delle buone intenzioni
(regolarizzare chi, di fatto, lavorava solo per poche ore a settimana)
mancano gli adeguati strumenti di controllo.
Il contratto a qualunque costo
Nel biennio 2010-2011 la quota
di ristoranti che ha assunto personale immigrato è stata quasi doppia rispetto
alla quota media delle aziende di tutti gli altri comparti. Il motivo è
semplice.
Con la regolarizzazione di colf e badanti del 2010, la
maggior parte dei clandestini ha sborsato di tasca propria le spese necessarie
alla documentazione e al pagamento del forfait per i contributi pregressi,
spesso pagando anche l’italiano che si è prestato a dichiarare di usufruire dei
loro servizi in casa, mentendo.
Tutto questo per poter essere poi assunti presso il
ristorante in cui già lavoravano da anni completamente in nero. In alcuni casi
lo stipendio percepito dopo la regolarizzazione è anche diminuito, perché se al
proprietario conviene rischiare meno e registrare un contratto che giustifichi
la presenza del lavoratore in caso di controllo, non vuole però addossarsi le
spese aggiuntive dei contributi.
All’epoca, nel ristorante romano in cui ero chef, al
lavaggio c’era Mohassim, detto Mox, un bengalese clandestino di 52 anni, pagato
750 euro al mese in nero. Siamo diventati amici, io e Mox, e spesso dopo il
lavoro lo accompagnavo a casa in moto, evitandogli le due ore di bus a cui era
abituato per raggiungere l’appartamento di 70 metri quadrati in cui
viveva nella periferia Est di Roma con altre undici persone.
Me li ricordo bene i suoi occhi lucidi quando ha
saputo che il miraggio del permesso di soggiorno era a portata di mano, costava
1.500 euro, non sarebbe più stato “invisibile” e lo avrebbero assunto al
ristorante con un contratto regolare, finalmente.
Lo stavano sfruttando, gli stavano chiedendo dei soldi
che avrebbero dovuto pagare le persone che avevano usato il suo lavoro per
anni, lo avrebbero sfruttato ancor di più pagandolo di meno e tenendolo sotto
scacco con lo spauracchio della perdita del contratto, ma lui era felice mentre
mi chiedeva in prestito quel denaro che non aveva.
È stato assunto, infatti, part-time, 20 ore
settimanali per 600 euro mensili. In realtà di ore ne faceva 60, ma per lui il
fuori busta non era contemplato. Semplicemente lavorava circa 260 ore al mese
con 150 euro al mese in meno di prima.
Da dicembre ho un nuovo lavoro
da chef in Trentino.
Questa volta sono riuscito a strappare un contratto di
terzo livello da 1.200 euro al mese, più un fuori busta di mille euro: lavorerò
sei giorni a settimana pranzo e cena.
Durante l’alta stagione invernale invece farò l’intera
settimana. Il proprietario godrà dei benefici che la regione autonoma mette a
disposizione per chi dà inizio a una nuova attività nel settore alberghiero.
Quando andate a cena fuori, o a far colazione, o a
bere un aperitivo, guardatevi intorno e chiedetevi quanto e come sono pagate le
persone che vi servono e quanto la quantità di evasione sistematica va a pesare
sui sacrifici che lo Stato vi chiede in tempi di crisi.
[Questo articolo è uscito sul numero 13 di “il Reportage”, gennaio-marzo 2013] … e notato per la prima volta
qui.
Ora, letto, copincollato e scritto
questo, un “presunto” rompicoglioni, tale Luciano Ardoino che è poi quello che
scrive su di questo blog (io), avrebbe anche trovato la soluzione che non
procura danno alle casse statali, erariali o Inps, e manco per sogno all’albergatore/ristoratore,
anzi …
Oltretutto sarebbe un bel guadagno per la qualità nel turismo del Bel Paese.
E nonostante l’abbia già
detto ai quattro venti da alcuni mesi, sembra che a nessuno freghi granché!
Questa è l’Italia e della mia
personale fiducia nella quasi totalità dei politici, gran parte dei giornalisti
e chi più ne ha più ne metta, è meglio che non dica, ma che equivale a qualche
grosso numero sotto lo zero.
Capito il perché chi critica "costruttivamente" cercando soprattutto le soluzioni, in questo Stato è un rompicoglioni ... per loro?