Crisi galoppante,
disoccupazione ai massimi storici, cervelli in fuga e colonne portanti del Made
in Italy svendute ad investitori stranieri.
Cosa sta accadendo a questa povera
Italia?
Chi trova giovamento in questo immobilismo e debolezza culturale?
Beh,
la risposta è abbastanza semplice e vale a dire che a nessuno (di quelli che ci
amministrano) frega una benemerita mazza.
Altrimenti
non si spiegherebbe la situazione attuale che se confrontata con altre nazioni
(ved. qui) che continuamente sfornano delle idee e delle possibilità in gran
quantità … mentre noi, oltre a non fare quasi niente (senza il "quasi), abbiamo il più famoso sito culturale dell'Unesco da far paura.
Infatti,
l’importante per “chillillà” è avere un careghino su cui sedersi e altri per i “commensali
preferiti”, mentre non mancano mai delle poltrone inserite lì da altri
politicanti di successo (a volte anche da parte dell’opposizione) … un lauto
stipendio, qualche incarico a chi dicono loro, bella vita, onore e tante di
quelle cosette che al cittadino normale lasciano di stucco considerando i
risultati.
E
per farmi aiutare in questo racconto “rubo” dal sempre bravo Stefano Monti che così scrive:
Perché si
scappa dall’Italia?
Perché il nostro è un Paese che continua a non dare aspettative, perché la meritocrazia non riesce a farsi strada fra i favoritismi, perché non si riesce ad individuare gli assi strategici sui quali investire e mancano interlocutori credibili.
Perché il nostro è un Paese che continua a non dare aspettative, perché la meritocrazia non riesce a farsi strada fra i favoritismi, perché non si riesce ad individuare gli assi strategici sui quali investire e mancano interlocutori credibili.
Il nostro Paese
non realizza che è giunto il momento di mutare prospettiva e cambiare modo di
pensare.
Solo modificando
l’angolazione da cui si guarda all’economia, la visione che si ha del mondo
produttivo, saremo in grado di concentrarci sull’elaborazione di nuovi e
vincenti modelli di
business, con i quali rilanciare
la produttività, l’occupazione e il benessere.
Si continua invece
a lottare per le solite gare, i soliti bandi, i soliti privilegi legati al
regime dell’economia assistita, che ancora s’invoca per uscire
da una crisi e un immobilismo che la stessa ha contribuito a creare.
Non si riesce ad
invertire la tendenza, manca la capacità di decidere dove e quanto tagliare,
dove e quanto investire.
Si assiste ad un progressivo abbassamento di
caratura delle personalità chiamate ad occupare i ruoli chiave del sistema
Paese e lo stesso
tessuto imprenditoriale rischia di cadere in errore e adottare prospettive
fuorvianti, mentre è iniziata la svalutazione
del nostro patrimonio culturale, economico e produttivo.
Se rimanderemo
ancora il cambiamento finiremo infatti col lasciare il Paese e le sue
eccellenze nelle mani dei migliori offerenti.
Non è un segreto,
infatti, che gli investimenti e le acquisizioni estere nel mercato italiano
abbiano registrato una rapida crescita, sono ormai due anni che la
colonizzazione del Made in Italy è iniziata e in pochi riescono a prevedere
cosa realmente seguirà alle recenti iniezioni di capitale estero.
Da Valentino a Bulgari, da Fendi a Bottega Veneta,
le operazioni si sono concentrate inizialmente sul settore fashion, per
estendersi poi a tutto il comparto del lusso, con gli yatch di Ferretti,
acquistati dal gruppo industriale cinese Weichai,
e il passaggio di Ducati ad Audi,
fino a raggiungere la finanza e l’agroalimentare.
Si pensi ad
Unicredit, uno dei principali gruppi bancari attivi in Italia, i cui primi tre
investitori sono stranieri e la maggioranza, con il 6,5%, è detenuta dal Fondo Aabar di Abu Dhabi;
si pensi a tutte quelle imprese del comparto food, da sempre fiore
all’occhiello e cuore pulsante dell’italianità, che da tempo hanno iniziato la
migrazione: Buitoni,
Carapelli, Invernizzi, Parmalat, Perugina, Galbani, Locatelli, Cademartori sono solo alcune.
Le azioni
incisive dei grandi gruppi industriali provenienti da Francia, Cina, Medio Oriente e
States non stanno
passando inosservate ed è forte il timore che molte di queste strategie
acquisitive di patrimoni
industriali, tecnologici e scientifici nazionali si risolvano unicamente in operazioni
di sottrazione di
know-how e svuotamento tecnologico.
A pagarne le
conseguenze, sul lungo periodo, sarà la competitività della nostra economia,
che perderà il controllo di imprese strategiche per lo sviluppo di interi
comparti.
Se una volta sotto
tiro vi erano i marchi storici del Made
in Italy, oggi la crisi espone al rischio anche il tessuto delle PMI.
Ma a chi
giova un’Italia debole?
Il patrimonio culturale ed industriale italiano, il saper fare artigianale che da sempre contraddistingue la nostra storia produttiva, le eccellenze del Made in Italy e le capacità di molti dei nostri cervelli in fuga possono costituire dei bersagli interessanti agli occhi dei grandi attori internazionali che, guardando all’incapacità della nostra classe politica e allo stallo della nostra situazione produttiva, penetrano nel mercato nazionale con rapidità e senza troppi ostacoli, a volte con intenzioni costruttive, altre meno. Le PMI italiane possono dirsi pronte ad affrontare i colossi dell’economia globalizzata?
Il patrimonio culturale ed industriale italiano, il saper fare artigianale che da sempre contraddistingue la nostra storia produttiva, le eccellenze del Made in Italy e le capacità di molti dei nostri cervelli in fuga possono costituire dei bersagli interessanti agli occhi dei grandi attori internazionali che, guardando all’incapacità della nostra classe politica e allo stallo della nostra situazione produttiva, penetrano nel mercato nazionale con rapidità e senza troppi ostacoli, a volte con intenzioni costruttive, altre meno. Le PMI italiane possono dirsi pronte ad affrontare i colossi dell’economia globalizzata?
Nel mondo
contemporaneo politica ed economia sono sempre più strette in una matassa
inestricabile e la globalizzazione ha scombinato ruoli, pesi ed equilibri.
Il tema della
sovranità è oggi per noi un tema caldo, cosa vuol dire per uno Stato essere
sovrano? Può la politica contare ancora qualcosa in un mondo in cui le grandi
corporation hanno utili che superano i PIL di intere nazioni?
C’è chi la chiama crisi della democrazia,
ma forse stiamo solo assistendo ad un’altra delle grandi epopee della storia,
che vede nel capitalismo e nella finanza globale i suoi nuovi protagonisti.
In ogni economia
è fisiologico che vi siano momenti di difficoltà e che le curve di crescita e
decrescita si alternino.
La crisi economica degli
ultimi anni è un fenomeno globale, ma a distinguere il caso italiano è lo stato
di perenne immobilismo che avvolge le istituzioni e gli attori, una fase di
stallo che si protrae da un tempo che sembra interminabile e in relazione alla
quale pare non vi siano strumenti efficaci d’intervento.
Chi muove
realmente le fila in questo spettacolo?
Interrogarsi sulla
situazione che regna oggi nel nostro Paese e sulle motivazioni che l’hanno
causata presuppone di volgere lo sguardo tanto alla politica quanto
all’economia, ma siamo sicuri di avere chiaro quale politica ed economia sono
realmente in ballo?
@Luciano
RispondiEliminafacènnoce 'e cunte,
nun vale cchiù a niente
'o peccòmme e 'o pecché.
Basta ca 'nce sta 'o sole,
ca 'nc'è rimasto 'o mare,
'na nènna a core a core,
'na canzone pe' cantà.
Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto
chi ha dato, ha dato, ha dato
scurdàmmoce 'o passato,
simme 'e Napule paisà!
Se non fanno così anche in Italia
RispondiEliminahttp://www.adnkronos.com/IGN/News/Esteri/Grecia-approvato-nuovo-piano-dausterita-Via-libera-a-migliaia-di-licenziamenti_32408266436.html
Bel post
RispondiElimina