Il momento più emozionante fu quando il vecchio comico
sollevò la bocca dal fiero piatto di salsicce e broccoli e
piantò sul giornalista la sua espressione più celebre.
Fronte aggrottata, occhi sbarrati, bocca semiaperta e
leggermente digrignata.
È un monumento della cultura nazionale
quell’espressione sorpresa e già rassegnata, arresa di fronte alla realtà che
spiazza e sconfigge, e sovrasta ogni disperata impostura, miserabile
dissimulazione, arroganza da due soldi.
Lo sguardo del vigile Otello Celletti quando
scopre che sua sorella a Milano non fa propriamente la massaggiatrice.
Lo sguardo di Nando Mericoni quando
esce dalla marana e realizza che gli hanno rubato i vestiti. Con quello stupore
che si era fatto icona, Alberto Sordi aveva dipinto l’autoritratto del
Dopoguerra italiano.
Adesso invece lo brandiva contro il giovane
intervistatore che lo addolorava con una scandalosa inappetenza. “Che fai? Nun magni ’a sarciccia?”.
Poi la fulminea trasfigurazione sordiana, il cambio di
passo: gli occhi azzurri, che avevano appena confessato il rimpianto per il
figlio mai nato, presero una piega affettuosa per accompagnare la paterna,
impaziente esortazione: “E magnate ’a sarciccia!”.
“Sembra che famo a
gara a chi magna de più, trattorie piene di culoni che magnano…”
Correva l’anno 1989, il Muro di Berlino stava
per essere abbattuto e l’antico castello Odescalchi di Bassano Romano, vicino a
Viterbo, faceva da set per una versione cinematografica de L’avaro di Molière.
La storica addetta stampa Maria Ruhle, giocando sull’argomento del film per
aiutarne il lancio, aveva messo a disposizione il protagonista per un’insolita
intervista sul denaro con la rivista economica Fortune.
Un fallimento totale: Sordi non aveva nessuna
voglia di fingersi sociologo o economista. La sua analisi verteva su pulsioni
elementari (la fame, il rispetto, l’invidia) e la sua scienza economica
risultava fondata su quattro unità di conto, quella base, il supplì, e i suoi
tre multipli: il piatto di bucatini, l’automobile, la casa. Infine
l’esibizionismo indotto dalla tv, che avrebbe distrutto l’Italia. Una
cosmogonia improponibile per gli americani della Time-Warner.
Per questo
l’intervista è rimasta quasi completamente inedita per 23 anni, custodita in un
nastro. Alla soglia dei 70 anni, che avrebbe compiuto il 15 giugno 1990, Sordi
era ricco e venerato. Davanti al portone del castello, un’enorme Mercedes scura
annunciava la sua presenza.
All’interno aveva per camerino un camerone
rinascimentale con uso di cucina. In pausa pranzo tutta la troupe, compresi i
figli dell’avaro, Miguel Bosè e una giovanissima Anna Kanakis,
restava buttata nel parco a mangiare il cestino da set, con pasta rinsecchita,
fettina ingiallita di formaggio e pera di marmo.
Il
capocomico si ritirava nel camerone-camerino, si metteva una giacca da camera
coi pomelli e aspettava che la governante cucinasse per lui come a casa.
Salsicce e broccoli, quel giorno.
Mangiava e parlava, e per spiegare l’economia italiana
raccontava la sua vita, non per egocentrismo, semplicemente l’autoritratto
dell’italiano normotipo non distingueva la patria da se stesso.
Descrivendo l’Italia attraverso Roma e
Roma attraverso i suoi occhi, Sordi formulò la sua profezia sulla globalizzazione,
la scomparsa del ceto medio, il declino italiano: “Sembra che famo a gara a chi
magna de più, ci bombardano di pubblicità televisiva, che io la vieterei, e
tutti a consuma’, vedi ’ste trattorie piene di culoni che magnano …
Ma che te magni? Io magno un supplì e
me basta. No, dice, siccome tu sei ricco di supplì ne magni dieci.
Ah, sì? Allora guarda, io so’ ricco davero, ma non è
che quando entro in trattoria, siccome c’ho i soldi, magno tutto quello che
c’è. Vedi ‘sto goccetto de vino? Mi basta per essere felice. E invece no, dice,
siccome sei ricco te bevi tutta ’a botte. Anzi no, te compri la vigna”.
Ecco il consumismo che negli anni 80 ci
trascinava verso il gorgo della globalizzazione: “Importiamo un sacco di
carne anche se sappiamo che ci fa male. Prima la mangiavamo la domenica, ce se
faceva il sugo. Adesso il pupo non mangia lo spezzatino, vuole il filetto, e
importiamo il filetto. E tutti a spendere. Ma state attenti, non c’è niente di
peggio che diventare poveri dopo essere stati ricchi”.
“Agli italiani vorrei dire questo: stiamo attenti, non
diamoci alla pazza gioia, che se domani si mette male… Quando andai a
prendere la cittadinanza onoraria a Kansas City poi
arrivai fino a Hollywood e vidi Ramon Novarro che per campare faceva la
comparsa. Ahò, e Oliver Hardy e Stan Laurel,
lo sai? So’ morti in un ospizio per poveri. Tornare poveri è orribile. State attenti,
può succedere”.
“Roma si sta
distruggendo con le automobili. Il Colosseo crollerà per le vibrazioni”
“Che dici?
Società segmentata? Ma ’ndo l’hai letto? Stamo a diventa’ tutti uguali, ed è
colpa dell’automobile. Prima la 600, poi la Millecento,
poi la macchina straniera. Tutti con la macchina, tutti uguali, no? Ahò, hai
visto quante automobili? Roma si sta distruggendo con questo mare d’auto. Ne
facciamo un milione l’anno, non sanno più dove metterle. Io vieterei il
parcheggio in tutta la città, salvo pochi tassametri a 20mila lire l’ora. Pensa
le vibrazioni! E dai, non si può far crollare il Colosseo perché
il pupo deva anda’ a pija’ il gelato con la macchina! E annamo!…No, aspetta,
tutti uguali te dicevo. Eh sì, perché prima c’era il nobile,
il proletario, il ricco, il povero. E ognuno aveva la sua felicità. Il povero non
soffriva, perché gli bastava un piatto de bucatini a fargli esplodere la gioia.
E le automobili stavano solo nel cortile dei nobili, ma nessuno era
invidioso. No, non avevo detto che è brutto essere poveri. Se nun magni ’a
sarciccia pe’ sta’ attento, stai attento: non è brutto esse’ poveri, è brutto
diventarlo”.
“Ma sì, hai
capito, papà non ce l’aveva fatta, e si era adattato al basso tuba”
“Senti
un po’, quand’ero ragazzino non eravamo poveri, nun ce mancava niente,
papà faceva l’orchestrale, mamma era maestra.
Però se magnava e ce se vestiva, e basta. Il mio sogno era la bicicletta,
ma papà e mamma non me l’hanno mai potuta fare. Per la Befana me facevano la
palla de gomma, e io ero felice perché rimbalzava, a differenza della palla de
stracci. Poi cercavo di farmi amico il ragazzino privilegiato che c’aveva la
macchinina meccanica, così magari una volta me la faceva provare. Andava bene
così, gli strati sociali servono a preservarci dal risentimento.
Per dire,
la domenica andavo alla Galleria Colonna (oggi si chiama Galleria Alberto
Sordi, ndr), perché c’era l’orchestra che suonava il jazz, lì al caffè Aragno.
Noi ascoltavamo in piedi, ma c’era gente ai tavolini con certe coppe de gelato…
Quanto ho desiderato quel gelato! Non c’era risentimento, solo il desiderio di
potermelo un giorno permettere anch’io. Sì, ammiravo i ricchi, volevo diventare
come loro”.
Come
in ogni artista geniale, il motore creativo di Alberto Sordi pescava il
carburante in chissà quali ripostigli della mente. In uno di questi c’era la
figura di suo padre, il professore d’orchestra Pietro Sordi,
morto quando Alberto aveva appena 20 anni e rimasto, sempre, “papà”.
“Sono
diventato ricco in modo graduale, ordinato. Era tutto previsto. Sai, io da
ragazzo vivevo in un grande ottimismo, malgrado il pessimismo di papà che mi
diceva di avere prudenza nelle aspirazioni, diceva: tutti mirano al successo ma
solo qualche privilegiato ce la fa, tu puoi intraprendere questa carriera da
artista ma devi anche prevedere che potrebbe andarti male. E io dicevo, papà ma
se io mi impegno… e lui diceva, ma sì Albe’, l’impegno è un bello sprone ma poi
ci vuole la fortuna …
Ma sì, hai capito, papà non ce l’aveva fatta. Nella sua grande umiltà si
era adattato al basso tuba, uno strumento di accompagnamento, e questo ti
descrive la sua personalità. Ammirava gli altri, descriveva gli altri, di sé
non parlava mai, e io forse anche per dimostrargli qualcosa ce l’ho messa
tutta, ho avuto successo e sono diventato ricco. Ma sai che cosa vuol dire
essere ricco? Una sola cosa, che ti puoi rilassare,
che non hai paura della vecchiaia, perché ti puoi permettere certe infermiere che…
altro che moglie!”.
“Però
devi essere ricco davvero, come me. Non come questi che hanno uno stipendio di un milione,
un milione e mezzo, e fanno i debiti per compra’ questo e quello, perché hanno
perso la misura della felicità. La felicità è ’na sarsiccetta quando ce vo’. La
felicità vera della mia vita è stata la scoperta del sesso,
ottenere un bacio da una ragazza, quelle sono emozioni…
E poi gli
italiani hanno perso la misura del denaro. Accendono la tv,
uno chiede chi è l’eroe dei due mondi, quello dice Garibaldi, e bravo, lei ha
vinto 20 milioni. Con una naturalezza! E così non ci resta che l’esibizionismo.
Vogliono andare in televisione, tutti, io l’avevo capito già negli anni 50, ti
ricordi quel film, Domenica è sempre domenica? C’era un industriale
ricchissimo che non aveva altro per la testa che andare al Musichiere con
Mario Riva. Si compra di tutto per esibizionismo, ci si rovina per esibizionismo.
Portare i
regazzini a scuola con la macchina, è esibizionismo. È colpa della tv se la
vita è diventata un grande palcoscenico, esibirsi è
diventata regola di vita”. “Sì, bè? Che c’è? Sì, un attore che parla di
esibizionismo… Ma io sono un professionista, ho sempre lavorato come un pazzo,
187 film in 35 anni, cinque/sei film all’anno. Mi esibisco solo davanti alla
telecamera, quando esco dal set ho finito de lavora’, non vado in giro a farmi
fotografa’ dai paparazzi.
E poi,
siccome non mi piacevano le automobili, anziché buttare i soldi nel macchinone americano
giravo con una Fiat. Hanno cominciato a dire, cazzo, con tutti chii sordi, che
vita fa? E allora è nata la leggenda che ero avaro.
La verità è che io i miei desideri li ho soddisfatti tutti. Il primo è stato
quello di viaggiare: appena avevo una pausa partivo, in
Sudamerica, in Asia, in Africa. Sono stato dappertutto e ho speso un sacco di
soldi, aho’, ai miei tempi viaggiare costava un sacco”.
“Fossi stato
avaro avrei fatto la pubblicità, ma ho detto no per rispetto del pubblico”
“Il
secondo obiettivo è stato la casa: papà e mamma non se la sono mai potuta comprare,
stavamo in un appartamento del Demanio, in via San Cosimato, a Trastevere.
Io ci tenevo, ho speso un sacco di soldi per quel terreno davanti alle Terme di
Caracalla, e mi sono fatto la casa come piaceva a me,
indipendente, con il giardino, comoda, arredata a modo mio, dove tengo tutte le
cose che mi piacciono.
Poi basta,
devi avere un limite, io in trattoria con la famiglia ci vado una volta al
mese, mica de più. Beneficenza? Quelli so’ affari miei, non ne voglio
parla’. Ma se fossi stato avaro, o avido, avrei fatto la pubblicità,
e invece ho sempre detto di no, ho calcolato di aver detto no ad almeno 50
miliardi di lire. E sai perché? Usare la notorietà regalatami dal mio pubblico
per convincere quello stesso pubblico a comprare qualcosa mi sembrava una
mancanza di rispetto”.
Sordi si
presentava così, professionalmente immerso nei difetti degli
italiani, ma attratto da imperativi morali di altre galassie.
Innamorato del popolo ma
schiettamente reazionario, avviluppato in una ossessiva e apparentemente
incongrua sfida alla mediocrità e all’uguaglianza. “A me i ricchi mi hanno
sempre affascinato. Quando ero ragazzo conobbi Romolo Vaselli,
che da muratore era diventato uno dei più importanti costruttori di Roma. Gli
chiesi di poterlo frequentare e andavo nel suo ufficio, mi
sedevo su un divanetto e assistevo alle sue contrattazioni su affari da
milioni. Volevo affermarmi e cercavo di imparare l’arte del successo.
La mia generazione i veri ricchi, quelli con il feudo, non li ha mai conosciuti.
Noi abbiamo gli arricchiti, quelli che hanno fatto i soldi con la guerra o con
il Dopoguerra. Non sono esseri superiori, sono italiani come gli altri.
Diffidenti, vigliacchi, opportunisti, con momenti di generosità, ma egoisti,
pronti ad arrangiarsi chiusi nell’ambito della famiglia, senza interessarsi del
rispetto della legge”.
L’arringa
per un giornalista mai visto prima né dopo, per
ragioni misteriose, non voleva finire. Entrava il regista Tonino Cervi per
un problema di organizzazione del set e lui: “Dopo, dopo…”. Ci provava lo
sceneggiatore Cesare Frugoni, e lui lo respingeva: “Aspetta un po’…”.
Alla fine una signora decisa si affacciò: “Saremmo pronti per girare”. Il
professionista capì: “Ahò, so’ pronti pe’ gira’… Devo anda’. Bè, t’ho fatto un
romanzo. Ma perché non hai voluto magna’ ’a sarciccia?”. “Bè, è che
intervistare Alberto Sordi è emozionante, uno si deve concentrare. Ma non si
preoccupi, prima, mentre lei riguardava la sceneggiatura col regista, gli altri
attori mi hanno offerto un cestino”.
Il grande
attore sfoderò un’altra delle sue espressioni celebri, la delusione manifestata
con le palpebre a mezz’asta e un sospiro: “Hai magnato il cestino… Bboono il cestino…”.
Incredulo e scoraggiato si incamminò verso il set, ma sulla porta si voltò per
un ultimo chiarimento: “Senti, una cosa non ti ho detto. Ti ho elencato un
sacco di difetti degli italiani. Ma io voglio bene a questi italiani incapaci di
governarsi da soli. Non è colpa loro, ricordatelo. Sono così
perché non hanno mai avuto grandi esempi da seguire e grandi leader di
cui fidarsi”.
Da il
Fatto Quotidiano del 24 febbraio 2013
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